di Alessandra Capocefalo (archeologa)

L’eccellenza alimentare costituiva un valore già nel mondo antico. La letteratura latina, in particolare, è piena di riferimenti a cibi prelibati e ricercatissimi provenienti da ogni parte del Mediterraneo: sulle tavole dei ricchi commensali il miele al timo del monte greco Imetto, il vino Falerno della Campania, il grano dell’Apulia, il formaggio Vatusicus delle Alpi e il garum (salsa di pesce salato) spagnolo di Cartagine Spartaria.

E l’olio? Il migliore del mondo romano proveniva da Venafro e le numerose citazioni degli autori antichi non lasciano dubbi sul suo valore che raggiunse il suo apice in epoca imperiale.

L’olivo a Venafro arriva dopo un lungo viaggio, introdotto intorno al IV sec. a.C., secondo la tradizione, da un Licinio originario della città che avrebbe selezionato una cultivar, l’attuale Aurina, chiamata Licinia (il nome con cui i Romani la conoscevano) in suo onore, particolarmente adatta al clima più rigido dell’area venafrana.

La leggenda era talmente nota che Vincenzo Cuoco, nel suo “Platone in Italia” (1806), la legittima facendola raccontare ad uno dei suoi personaggi “Voi greci credete che l’ulivo non prosperi alla distanza di quaranta miglia dal  mare;  tempo  fa  lo  credevamo  anche  noi, e  gli  abitanti  delle  Mainardi e  della Maiella  erano  costretti  a  comprare  l’olio  dagli  abitatori  delle  terre  vicine  al  mare.  Il mio amico Licinio ha voluto introdurre l’ulivo nella sua patria. Egli era cittadino di Venafro.  Dopo  lunghe ricerche,  tra  le  tante  specie  di  questa  utile  pianta,  ne  ha ritrovata  finalmente  una  capace  di sostenere  il  freddo  delle  paterne  montagne;  e l’olio di questo ulivo non cede all’olio de’ Salentini e Tarantini. Voi  forse  talvolta  passerete  per  Venafro.  Vedrete  le  petrose  falde  delle Mainardi  ricoperte  dell’albero  sacro  a  Minerva.  Dimandate  a  quegli  abitanti  qual  nome essa abbia. Tutti vi risponderanno; – Licinio!”

Secoli di letteratura non ci dicono come doveva essere l’olio venafrano ma ce lo lasciano intuire. Infatti, una delle più note e importanti caratteristiche dell’olio di Venafro, oleum viride (olio verde) per eccellenza ottenuto dalla spremitura delle olive al giusto grado di maturazione, era il suo profumo, il nostro moderno “fruttato”, l’insieme delle sensazioni olfattive positive.

Un pregio organolettico che ha conquistato le tavole di imperatori e nobili senatori, ricchi mercanti e aristocratici rampolli, definendo nel corso dei secoli il profumo del “buono”.

Un profumo che non era riservato alle ampolle dei meno abbienti ai quali, come Trebio, invitato alla ricca mensa di Virrone, era servito un olio diverso e di qualità scadente “Lui inonda il suo pesce con olio di Venafro, mentre questo pallido cavolo che verrà portato a te, poveretto, puzzerà d’olio di lucerna” (Giovenale, Satire, I, 5, 85 – 87).

Questa caratteristica dell’olio venafrano lo rendeva perfetto anche per la produzione di unguenti e oli profumati che assorbivano la maggior parte del consumo di olio pro-capite nell’antichità “L’olio che vedi l’ha tirato fuori la bacca di Venafro campana: tutti gli unguenti che usi hanno il suo stesso profumo” (Marziale, Epigrammi, XIII, 101).

Unguentari in pasta vitrea, da sinistra: aryballos, alabastron, amphoriskos, oinochoe. Produzione fenicia, V-IV se. a.C. The Metropolitan Museum of Art, New York Foto da www.pinterest.com
Unguentari in pasta vitrea, da sinistra: aryballos, alabastron, amphoriskos, oinochoe.
Produzione fenicia, V-IV se. a.C.
The Metropolitan Museum of Art, New York
Foto da www.pinterest.com

Era talmente importante l’idratazione del corpo a base di olio che Romilio Pollione, un famoso centenario del tempo di Augusto, interrogato dall’Imperatore su quale fosse il segreto di tale longevità e vigore, rispose: “dentro il vino mielato, fuori l’olio” (Plinio, Naturali Historia, XXII, 114).

Un’abitudine antica talmente radicata che coinvolgeva anche la cura del corpo dei defunti. Infatti, gli unguentari e i piccoli contenitori da olio che affollano le vetrine dei musei archeologici di tutto il mondo ci parlano dell’olio profumato che veniva usato per l’unzione delle salme; in particolare nel Molise, oltre a numerosi contenitori di epoca romana, è di notevole interesse la presenza di alcuni piccoli unguentari in una sepoltura di Sanniti frentani della fine del IV sec. a.C., rinvenuta nel territorio del comune di Ururi. I cinque contenitori in vetro colorato, attualmente esposti al Museo Sannitico di Campobasso, provengono da un’officina specializzata orientale o, più probabilmente, magnogreca e contenevano oli profumati utilizzati per la preparazione della salma prima della sepoltura o donati come offerta.

Il corredo di questa deposizione, a cui si aggiunge un servizio di vasi da simposio di produzione apula eccezionale per il contesto regionale, testimonia la stretta connessione tra i Sanniti frentani e questa parte della Magna Grecia in un flusso costante di beni materiali e immateriali, oggetti, tradizioni e credenze che si mescolano e si diffondono arricchendo di nuovi elementi la cultura italica preromana.

Tuttavia, come molte delle piante della cosiddetta dieta mediterranea, l’olivo non era autoctono della penisola italiana. La sua versione selvatica (Olea sylvestris) è originaria della parte più estrema della sponda orientale del Mediterraneo, l’area siro-palestinese. Già intorno al VI millennio a.C. lo troviamo nel Mediterraneo occidentale, utilizzato a scopo alimentare e non ma bisognerà aspettare il II millennio per trovare gli indizi della sua coltivazione, prima in Palestina e, successivamente, a Creta e in Grecia dove diventerà un dono divino, l’albero simbolo della dea Atena.

Da un villaggio del Bronzo Finale (XII – XI sec. a.C.) di Archi, in provincia di Chieti, provengono i noccioli di olive coltivate più antichi della penisola italiana ma è solo nell’VIII sec. a.C. che si ipotizza l’inizio della coltivazione sistematica dell’olivo in Italia. Fenestella, storico romano sotto il principato di Augusto, sosteneva che all’epoca di Tarquinio Prisco, 173 anni dopo la nascita di Roma, l’olivo non fosse ancora coltivato in Italia, né in Spagna, né in Africa (Plinio, Naturali Historia, XV, 1).

Se fosse così l’olio sarebbe in realtà un prodotto giovane che in pochissimi secoli ha dominato il mercato mediterraneo con centinaia di migliaia di litri che viaggiavano via mare e via terra a seconda delle qualità e dei territori di provenienza.

E’ stato calcolato che il consumo annuale di olio di oliva nel mondo antico fosse in media di circa 20-30 kg a persona* (vedi nota 1 a piè pagina) mentre in Grecia, che è il Paese al mondo con il consumo maggiore, nell’annata 2013/2014, si è attestato sui 12,8 kg pro-capite (fonte C.O.I., in inglese International Olive Council,  http://c1.oliveoiltim.es/library/ioc-february-2016.pdf).

Villa rustica romana, torcularium e magazzino
Villa rustica romana, torcularium e magazzino. Loc. S. Maria di Canneto, Roccavivara – Foto di Lidia Di Giandomenico

La produzione di olio era, infatti, alla base dell’economia italica del mondo romano, grazie alla versatilità del suo uso e non è infrequente che gli archeologi rinvengano i torcularia,  i frantoi dell’epoca. Nel Molise possiamo ricordarne almeno due ben conservati, quello della villa rustica di Roccavivara, all’interno del Santuario di S. Maria del Canneto e quello della villa rustica di S. Giuliano di Puglia.

L’olio extravergine molisano, che ha conquistato un riconoscimento DOP soltanto nel 2003, può vantare nel suo patrimonio genetico 18 cultivar autoctone che conservano nei frutti il sapore e il profumo di una selezione millenaria che ha coinvolto la maggior parte del territorio regionale, dal pomodoro della Sperone di Gallo alla cicoria della Gentile di Larino, dall’amaro intenso della Rumignana al profumo antico dell’Aurina.

*Nota 1): Per l’età imperiale disponiamo di stime sui consumi della città di Roma basate sui ritrovamenti delle anfore olearie nel monte Testaccio grazie alle quali si può ipotizzare un consumo annuo pro capite di circa 22,5 chilogrammi. (Emilio Rodríguez Almeida, Il Monte Testaccio: ambiente, storia, materiali, pag. 119, Roma, 1984)

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